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termini di lingua, cultura e tradizioni, andando quindi a superare valori storicamente radicati come l’omogeneità etnica.
Un ulteriore principio del diritto è poi rappresentato dallo Ius Culturae, secondo cui un minore straniero può acquisire la cittadinanza dello Stato in cui è nato o vive da un certo numero di anni a condizione di aver completato almeno un ciclo di studi o un percorso formativo nel suddetto Paese.
In Italia la questione della cittadinanza e della sua concessione è tornata ad essere, soprattutto alla luce delle ondate migratorie che hanno coinvolto la nostra penisola, uno fra i più controversi temi che hanno animato il dibattito filosofico e politico degli ultimi anni. Attualmente è ancora in vigore lo Ius Sanguinis, ovvero, al momento, un bambino nato in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se, fino a quel momento, ha risieduto “legalmente e ininterrottamente” in Italia, senza alcuna garanzia che il diritto venga concesso e con l’impedimento alla famiglia di trascorrere periodi all’estero. Si tratta, evidentemente, di un modello costituzionale piuttosto antico, che non tiene conto dei cambiamenti subiti dalla nostra penisola negli ultimi decenni, mutato ormai da un Paese di forte emigrazione in uno di immigrazione che però trascura le esigenze del proprio popolo, ormai disomogeneo in termini di etnia e che necessita oggi più che mai di leggi che favoriscano l’integrazione.
Sono oggi 1 milione e 300 mila i figli di immigrati che vivono nel nostro Paese, il cui 75% è nato in Italia. Frequentano regolarmente le nostre scuole, parlano la nostra lingua esattamente come i bambini italiani, spesso anche i dialetti, viene loro insegnata la nostra storia, le nostre leggi, le nostre norme sociali, ma nonostante ciò lo Stato italiano li esclude dalla comunità, infliggendo loro un pesante svantaggio non tanto in termini economici quanto più sul piano identitario: la cittadinanza infonde uno spirito di appartenenza a qualcosa di comune che è fondamentale per la coesione sociale, induce volontà e partecipazione da parte degli stranieri nei confronti dello Stato, percependolo come
casa propria e non più come un nemico volto a emarginarli e farli sentire apolidi ed esclusi.
Una revisione sulla legge per l’attribuzione della cittadinanza sarebbe dunque indispensabile per incentivare l’integrazione e andrebbe a migliorare l’intera comunità, favorendo la convivenza pacifica tra italiani e stranieri, riducendo tensioni e conflitti e disinnescando il pericoloso meccanismo di chiusura da parte dei residenti e auto-ghettizzazione da parte dei nuovi arrivati.
Una prova tangibile di ciò è rappresentata dal modello tedesco. La Germania era infatti un paese molto radicato e fedele alle tradizioni esattamente come il nostro, ma già da vent’anni ha superato le antiche modalità legislative per favorire una visione più moderna di Stato, adottando lo Ius Culturae. Questa apertura ha portato genitori a investire molto di più nell’istruzione dei loro figli e anche, quindi, a un impegno maggiore da parte degli studenti stessi, il cui tasso di abbandono scolastico fra minori immigrati è decisamente inferiore a quello italiano, così come quello della criminalità.
È impensabile dunque poter proseguire ancora formando giovani nelle nostre scuole che rappresentano un’enorme risorsa sociale, economica e di innovazione per il nostro Paese, investendo sul loro futuro per poi escluderli, senza permettere loro di essere riconosciuti e identificati per quello che si sentono di essere e che di fatto sono: italiani. Un modello più aperto e moderno disegnerebbe un quadro sociale e giuridico che valorizzerebbe l’irrinunciabile contributo economico e demografico offerto dagli stranieri, oltre a portare importanti miglioramenti dal punto di vista sociale e comunitario.
I recenti Decreti sicurezza hanno raddoppiato da 24 a 48 mesi i termini per la conclusione dell’iter per la concessione della cittadinanza per residenza al compimento dei 18 anni dei figli di cittadini stranieri nati in Italia e di quella per matrimonio. Sarebbe invece opportuno riportare a due anni il tempo massimo per ultimare le pratiche.
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