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Stamattina ho ricordato ai ragazzi del workshop la grande responsabilità che ha l’informazione, perché per tanto tempo si sono usate parole sbagliate come “sbarco”, che evoca l’invasione, invece della parola “approdo”, che evoca la salvezza. Si sono spesso usate parole sbagliate per raccontare con titoli sui giornali gli arrivi, mentre si è sempre taciuto sul numero dei morti. Un giorno in particolare, nel novembre del 2012, arrivò un soccorso con 13 corpi di giovani ragazzi e ragazze, tutti insieme su un territorio piccolo e poco attrezzato. Chiesi ad altri sindaci se avevano qualche loculo disponibile perché quelli di Lampedusa erano al completo e intanto dovevo trovare un posto dove conservare le salme prima che il prefetto trovasse una soluzione, dal momento che ovviamente in chiesa non si poteva e a scuola nemmeno. Lampedusa è piccola, non c’è un grande patrimonio di edilizia pubblica, le strutture alberghiere in quel periodo lavoravano ancora. Abbiamo dovuto accatastare le tombe nella camera mortuaria nel cimitero di Lampedusa. Inizialmente avevo pensato all’hangar che poi ospitò le vittime del 3 ottobre, ma dovevo tenerle veramente per poco tempo per le varie norme sulla sicurezza. Mi scuso se posso sembrare macabra, ma i corpi puzzavano perché erano decomposti, e vorrei far sentire a tutti quell’odore così acre, perché è una cosa che fa terribilmente rabbia. Si trattava di persone che avevano una grande forza e un grande coraggio, che stavano seguendo un progetto per il loro futuro e che sono diventanti pezzi di carne senza nessuna colpa e non per colpa del mare.
Andando al 3 ottobre 2013, in quella giornata il mare era come una tavola; i pescatori, quando il mare è così, dicono che sul mare si può scrivere e quindi non è stato il mal tempo, anzi la maggior parte dei naufragi
non avviene per il mal tempo. Quando c’è mare mosso, le partenze vengono rinviate, sono tantissime le cause dei naufragi. Nel caso del 3 ottobre l’avaria è avvenuta a poche centinaia di metri dalla costa, i due scafisti avevano visto la terra e si erano liberati del cellulare perché quel viaggio era organizzato da un’associazione criminale. All’inizio non avevo ben capito cosa fosse accaduto, per quale motivo nessuno di loro quel giorno avesse potuto chiedere aiuto e chiamare, ma poi, parlando con i superstiti, tutti capirono. Questa organizzazione criminale sottraeva i cellulari alle persone a mano a mano che salivano sui barconi; gli unici ad avere il cellulare per comunicare con l’organizzazione criminale e chiedere aiuto erano i due scafisti che, a differenza di quello che avviene generalmente, erano parte integrante dell’organizzazione criminale. Lo scafista sopravvissuto, che poi è stato condannato a 20 anni di reclusione, si è liberato del cellulare proprio per non essere riconosciuto e, quando subito dopo si fermarono i motori, non hanno potuto chiedere aiuto. Era ancora buio, era mattino molto presto, i superstiti raccontano che sono passate tre imbarcazioni che non li hanno visti o ignorati; al passaggio della terza imbarcazione, lo scafista ha acceso una fiamma per farsi vedere, inzuppando di benzina una coperta; ovviamente ha sbagliato e un incendio ha cominciato a divampare e a sua volta ha provocato il panico. Erano più di 500 su un gommone fermo in mezzo al mare ed erano già spaventati essendo fermi e senza mezzi per comunicare: hanno cominciato allora a muoversi e ad agitarsi e il peso del barcone si è spostato su un lato, ribaltandosi, affondando molto velocemente e depositandosi a quasi 50 metri di profondità.
Si trattava tutti di Eritrei, lo sottolineo e lo voglio ricordare, perché gli Eritrei
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