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Nel Belice ci sono stato tre volte.
La prima pochi giorni dopo il terremoto che lo scon-
volse nel ‘67, mi unii ad un gruppo di volontari par-
titi da Napoli che portavano derrate alimentari e
vestiario. Partimmo di sera con la nave ed arrivammo
a Palermo all’alba, ci caricarono, noi e i sacchi con le
cose che portavamo, su di un camion, ma non sape-
vamo quale dei tanti paesi colpiti dal sisma sarebbe
stata la nostra meta. Ci fermammo prima a Castel-
vetrano, dove scesero alcuni di noi, poi il camion si di-
resse verso l’interno con meta Santa Ninfa.
Il paese non esisteva più, la popolazione sfuggita alla
catastrofe era stata sistemata in una tendopoli alle-
stita dalla Marina Militare, ma i disagi erano enormi.
Io fui destinato alla distribuzione degli aiuti che mano
mano arrivavano, distribuzione che aveva il suo cen-
tro in una baracca di legno e cartone catramato co-
struita dall’UDI, Unione delle Donne Italiane di
ispirazione comunista. Insieme ad altre persone - tra
cui la figlia di una personalità del PCI siciliano Na-
poleone Colajanni, la figlia di un dirigente nazionale
sempre del PCI Franco Rodano e di sua moglie, staf-
fetta partigiana ormai distinta signora di sinistra - al-
ternavamo la distribuzione degli aiuti all’assistenza
dei bambini più piccoli, ospiti della tendopoli, che
cercavamo di distrarre con giochi e passeggiate al-
l’aperto. La prima sera che arrivai si presentò alla
porta della baracca una coppia di giovani, la donna
era incinta e non avevano un posto dove andare per-
ché lei iniziava ad avere le doglie, li accompagnai su-
bito nella tenda ospedale gestita dalla Marina
Militare, poche ore dopo nacque Marina, la prima
nascita dopo il terremoto.
In quel periodo non riuscii a scattare neanche una
foto, mi sembrava più importante tutto il resto.
Queste foto sono state scattate un anno dopo, du-
rante un viaggio, una specie di pellegrinaggio perso-
nale. La situazione non era molto migliorata, il paese
era ancora un cumulo di macerie, alla tendopoli si
erano affiancate baracche di metallo, calde d’estate
e fredde d’inverno, in cui la popolazione, spersa, cer-
cava coraggiosamente di ricreare un ambiente umano
andato in frantumi come i muri delle case.
Quando tornai la terza volta, due anni dopo, la si-
tuazione non era molto cambiata.
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