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Giovanni Antonio Mocchi
Imparo ad amare la fotografia grazie a mio padre fotografo, durante le lunghe sedute
di stampa chiusi in una camera oscura.
Il mio percorso professionale mi ha visto impegnato principalmente nella fotografia di
reportage dalla fine degli anni ‘80 fino ai primi anni duemila.
I reportage in Africa hanno modificato il mio modo di osservare.
A fine anni ‘90 ho iniziato a fotografare e a frequentare, alcuni personaggi della cultura
e dello spettacolo. Ho iniziato a fotografare la danza e il teatro.
Con l’introduzione del digitale ho lasciato la drammatizzazione del bianco nero,
provando ad accostarmi al colore e alla leggerezza ma non è stato così facile.
Ho rallentato la mia l’attività per circa due mesi per frequentare alcuni corsi
professionali sulla fotografia digitale e la sua postproduzione per poter così controllare
tutto il processo che prima svolgevo in camera oscura.
Precedentemente il mio approccio era quello di provare a modificare ciò che osservavo,
ansioso di mostrare, cosa quasi impossibile, immagini ancora non vedute.
Con gradualità ho iniziato a spostare il mio sguardo su cose che precedentemente non
consideravo e proprio perché semplici e scontate forse mai osservate con attenzione.
Quel che rimane del Giardino dell’Eden credo risieda fuori dall’uscio di casa nostra e
fotografare penso che possa essere un modo per provare ad osservare e salvare quel
po’ di bellezza che ancora ci rimane accanto e a cui spesso non facciamo più caso.
Gianni Celati dice che: “..il mondo prende forma perché qualcuno lo osserva, prende forma
quando qualcuno sente il desiderio di contemplarlo..”
Posso dire che nel momento stesso in cui pigio il pulsante e l’otturatore scatta si
interrompe il ragionamento e il sentire che mi collegava all’oggetto, all’orizzonte o alla
architettura inquadrata. Tutto riprende quando in studio osservo a lungo le immagini
scattate ricevendo nuove sollecitazioni.
La successiva fase di post produzione delle immagini selezionate, tecnicamente dura
pochi minuti.
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