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La mia prima macchina fotografica è stata un’Eura Ferrania, utilizzava
        pellicole 120 e scattava 10 foto formato 6x7 cm. Avevo 11 anni, con
        quella documentai, a modo mio, un viaggio fatto con i miei genitori in
        alcune città italiane, fino a Trieste.
        Per casa circolava anche una Closter 35 mm con cui mio padre si di-
        lettava, poco a dire il vero, in occasione di gite ed eventi vari, ma il fun-
        zionamento era molto macchinoso e spesso la pellicola si inceppava.
        Il mio approccio con il mondo dell’immagine passa dal cinema. Da ra-
        gazzo, avendo visto girare a Napoli alcune scene di un film di Vittorio
        De Sica, Il giudizio universale, restai affascinato dalla figura del direttore
        della fotografia e decisi che quella sarebbe stata la mia professione,
        avrei dovuto frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia a
        Roma, ma ci voleva almeno un diploma, quindi mi iscrissi al liceo ar-
        tistico.
        Iniziai a coltivare l’interesse per il cinema e mi feci regalare una cine-
        presa, una Kodak con caricamento a molla, con la quale, insieme al-
        l’amico Giustino Zappacosta che condivideva la mia passione e con il
        quale avevo fondato la ZaGri Film (Zappacosta/Grieco), girai alcuni
        documentari su Napoli ed un film a soggetto di trenta minuti con at-
        tori presi tra parenti ed amici, completo di colonna sonora registrata
        sul magnetofono Geloso. I risultati furono unanimamente apprezzati
        nel corso delle proiezioni che organizzavo periodicamente. Avevo 15
        anni.
        Nel frattempo mi diplomai al Liceo Artistico e lì mi appassionai alla
        scultura, e invece di andare al Centro Sperimentale mi iscrissi all’Acca-
        demia di Belle Arti sezione scultura, come maestri avevo Emilio Greco
        e Augusto Perez.
        Poi, dopo una profonda crisi identitaria, al culmine della quale a colpi
        di ascia distrussi tutte le mie sculture che avevo realizzato in Accademia,
        distruzione alla quale assistette esterrefatto mio padre, scoprii, grazie
        alla rivista Popular Photography, edizione americana, il mondo della
        fotografia; ancora una volta mi appassionai e mi feci regalare dalla mia
        generosa nonna una Yashica Mat 124, mitica 6x6, nipponica perfetta
        imitazione della ben più costosa Rolleiflex. Finalmente avevo una mac-
        china fotografica in grado di dare vita alla mia nuova passione.
        La “indossai” e non me la tolsi più, andavo in giro fotografando tutto,
        oggetti, persone, ambiente, poi capii che dovevo iniziare a fotografare
        la “luce che scrive” per capire come essa si comportava con le cose,
        come le penetrava, ne veniva fermata o le modellava, come cadeva su
        quelle cose che fino ad allora avevo semplicemente “guardato” e che
        adesso “vedevo” fissandole sulla pellicola oltre che nella memoria; scat-
        tavo compulsivamente centinaia di foto, ero incontentabile, tutto
        quello che guardavo si trasformava in uno scatto. Naturalmente non
        tutto mi soddisfaceva, anzi ero molto critico e scartavo molte imma-
        gini. Ma comunque non ho gettato un solo negativo, li conservo ancora
        tutti, mi rappresentano.
        Poi finalmente acquistai, sempre grazie alla generosità di mia nonna,
        una Nikon F con Photomic e ottica 58mm f.1.1.2, potevo fotografare
        al lume di una candela. A quell’epoca costò, lo ricordo ancora,
        256.000 lire, un’enormità. Era il 1966, avevo venti anni e avevo da poco
        terminato il servizio militare. Attaccata alla mia mano destra, la Nikon
        diventò il prolungamento meccanico del mio occhio che rispondeva ai
        segnali del cervello sollecitato dal cuore. E da allora è iniziata la mia av-
        ventura fotografica.
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