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con ancora addosso i vestiti di una festa, sembrava che ancora dormissero. A mano a mano il recupero dei corpi divenne sempre più drammatico e, quando iniziarono ad arrivare i parenti delle vittime da tutta Europa, una delle esperienze più devastanti fu proprio l’identificazione dei corpi. Per coloro che tardarono ad arrivare, non fu più possibile riconoscere i cadaveri perché le bare andavano chiuse il prima possibile per questioni igieniche-sanitarie, perché non c’era un obitorio o delle celle frigorifere dove poter conservare i corpi.
C’erano solo dei veri e propri album fotografici, creati dalla polizia scientifica, che permettevano di riconoscere i corpi. Le operazioni di identificazione furono tragiche anche per gli operatori stessi, che assistevano i parenti o gli stessi superstiti che avevano perduto la moglie, la sorella o il fratello. Dopo le prime pagine in cui vi erano i corpi più conservati, era impossibile andare avanti, oltretutto era pure inutile perché erano irriconoscibili e questa partita di dare un nome ai corpi è ancora tutta aperta.
È stata la prima volta in cui a tappeto è stato rilevato il DNA per arrivare a identificarli tutti e dare una degna sepoltura a tutti loro. Tuttavia, la maggior parte delle tombe che ci sono a Lampedusa sono senza nome.
Durante il mio mandato ho seppellito solo tre corpi che avevano un nome. Nel primo caso c’era lo zio di due ragazzi somali che li ha identificati e anche nel terzo caso c’era il fratello. Solo un’altra vittima sepolta nel 2009 ha il nome perché viaggiava con lei il fratello, tutti gli altri sono tombe senza nome. Di queste 368 vittime, di cui si conoscono tutti i nomi perché hanno ricostruito la lista delle persone
che viaggiavano sulla barca, se solo si concludessero le analisi del DNA, si farebbe una grande operazione di giustizia perché queste persone non sono state uccise dal mare e nemmeno dallo scafista che è stato condannato, ma principalmente sono state uccise dall’Europa, perché non c’è un altro modo per loro di fuggire dalla guerra, dalla fame, dalla disperazione.
Tantissime persone di cui abbiamo raccolto i racconti non avevano in mente di venire in Europa, ma volevano fermarsi in Libia; purtroppo, una volta arrivati, sono dovuti fuggire. La drammaticità di quei giorni è stata terribile e insopportabile per tutti, per gli operatori, per la polizia, per i vigili del fuoco, per i soccorritori civili, centinaia di persone hanno collaborato al recupero dei corpi.
Oltre all’assistenza data ai superstiti e alle famiglie, abbiamo dovuto organizzare anche assistenza psicologica per i sub che hanno recuperato i corpi chiusi nella stiva. Questi sub sono stati veramente centinaia, perché a quella profondità potevano solo stare per pochi minuti ed era un duro lavoro perché dovevano aprire la stiva, rompere il legno e farsi strada tra i corpi. Erano necessarie moltissime risorse umane e, quando i sub tornavano a galla, svenivano o piangevano, e non erano più in grado di continuare.
La sera, quando le operazioni si chiudevano con il buio, non era più possibile continuare. Nei locali della marina, con psicologi e medici volontari che arrivavano da tutta Italia, si organizzava l’assistenza psicologica per coloro che recuperavano i corpi. Nella stiva avevano anche trovato persone abbracciate. Lo schiaffo del naufragio furono tutte quelle bare nell’hangar, perché
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