Page 10 - Tina Sgrò - Noto - 2021
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Il primo nome che sovviene è quello di Velazquez, seguito a ruota da Monet); una pittura arrossata dai rosa: l’antico, il new-popartistico, l’osceno – rosa acceso con esplosioni di rosso, il preferito dalla bella Alexandra mentre si abbandona a sua travolgente lap dance – e il nostalgico, il rosa d’una scolorita tenda di tulle, gonfia di vento e di ricordi, che parrebbe evocare cent’anni di letteratura nordamericana consacrata al teatro e, al seguito, il cupo elegiaco Hopper; una pittura di sensazione e di virtuosismo che non si sottrae allo scontro, in vero frontale, con la cruda realtà esistenziale (sovvengo allora altri bei nomi: Rembrandt, Rubens, persino Turner: evocati alla distanza, vaghe ombre che empiono gli angoli di queste stanze pittoriche). Soprattutto affiorano reminiscenze derivanti dai francesi: dal labile fantasma di Poussin smaterializzato, svuotato dei suoi colori, ai capofila del cosiddetto “impressionismo” tradotti in monocromi abbaglianti, che contendono palmo a palmo il campo ai visionari della cricca internazionale capitanata da William Blacke o da Odilon Redon, dal Gauguin del tempo di Arles, allorquando si vadano a considerare i mutamenti cromatici suscitati, per esempio, dall’investimento inaspettato di efferati lumi trascorrenti, l’affollarsi degli effetti di controluce e la trasognante presenza di accidentali riflessi prorotti da specchi lucenti da cui sprizzano – similmente alle ineguagliabili fotografie del torinese e newyorkese Giorgio Avigdor – luci argentate e magiche.
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