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mazzetti in larghe botti, abbastanza grandi da permetterci di entrarci
                   dentro e pressare i mazzetti di tabacco con le ginocchia. Le botti
                   venivano poi esportate.

                   Dunque il tabacco era di produzione locale?
                   Sì, era coltivato localmente. C’erano le piantagioni. Ma il tabacco
                   non era la sola coltivazione presente. Nei campi c’erano anche i
                   pomodori.

                   Quanti operatori contava la fabbrica?
                   Non saprei indicare un numero  preciso, ma  eravamo davvero
                   numerosi.

                   Si recava a piedi sul posto di lavoro?
                   All’inizio sì. Poi la fabbrica si era attrezzata di una navetta che al
                   mattino veniva a prendermi, insieme agli altri dipendenti, e alla sera
                   ci riaccompagnava.

                   Si lavorava molto?
                   Abbastanza, si restava a casa solo di domenica. L’orario lavorativo
                   era 8.00 – 16.00, compresa la pausa pranzo.

                   Eravate ben retribuiti?
                   Non si diventava  ricchi, ma eravamo regolarmente assunti. Una
                   cosa che a quei tempi era progressista.

                   Quando chiuse la fabbrica? E perché?
                   A ridosso degli anni ’60 – ’70. Una volta morti i proprietari, l’azienda
                   fu ereditata dai figli che non riuscirono a portare avanti l’attività.

            Al termine dell’intervista, le abbiamo chiesto curiosamente se avesse mai
            avuto la tentazione  di  fumare  in  mezzo  a  tanto  tabacco.  Ci  ha  risposto
            orgogliosamente di no e assicuriamo ai lettori che non è affatto una persona
            che le manda a dire, dunque ci fidiamo.

            Si può dire che nella cultura roggianese e forse meridionale in generale, il
            lavoro manuale era fonte e sinonimo di grande orgoglio.



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