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Il carro arrivava, tirato da un cavallone hen nutrito e ben bar-
          dato,  un  soldato  cocchiere  e  due  soldati  becchini.  Si  fer-
          mavano alla porta di ogni barracca. I due becchini afferravano
          quello  che  era  pelle  e  ossa  per  le  mani  e  per  i  piedi
          prendevano la spinta e “via” e si allontanavano ridendo e in-
          sultandoci in pessimo italiano: “domani essere voi sporci ba-
          dogliani”.

          Il  carretto  continuava  il  giro  del  campo,  poi  scompariva  in

          fondo alla strada. Prendeva la via dei  campi, dove era stata
          scavata da alcuni di noi una grande fossa comune, che alcuni
          di noi avrebbero ricoperto e poi scavata un’altra, per l’infor-
          nata  del  giorno  dopo.  Cosi’  ogni  giorno  per  mesi  e  mesi!  I
          posti vuoti venivano ricolmati con nuovi prigionieri che si ag-
          giungevano alla massa dei dannati.

          In tali condizioni tormentose, tanti persero la volonta’ di viv-
          ere. Non si riceveva nessuna lettera dall’Italia, eravamo all'o-

          scuro  di  come  andava  la  guerra,  che  cosa  era  successo  nei
          nostri  paesi  ed  ai  nostri  cari,  e  la  disperazione  e  pazzia
          facevano  vittime  anche  tra  i  piu’  giovani.  Potrei  raccontare
          diverse storie dolorosissime di compagni, ancora giovani dis-
          trutti dalla crudelta’ che li riduceva a cadaveri ambulanti. Ne
          racconto una.

          Si chiamava Marcello, era proveniente dall'alta Italia. Quando
          lo incontrai fuori le porte di Atene, nelle prime ore di marcia,

          era  un  bel  giovane,  sano,  educato,  istruitissimo.  Da  lui  po-
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