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russi col mitra spianato ed il dito sul grilletto, ogni dieci metri,
          e di nuovo in marcia. Ci dissero che il campo di smistamento
          era  vicino  ed  in  due  giorni  lo  avremmo  raggiunto.  Raggi-
          ungemmo Petrovac, dove si trovava il campo, dopo ventiquat-
          tro ore di marcia. Era sera ma potemmo renderci conto della
          realta’;  torri  con mitragliatrici spianate,  fili spinati  altissimi,
          una  massa  di  prigionieri,  di  diverse  nazionalita',  impaccati

          dentro locali sporchissimi.

          “Calo..  che  ti  dicevo?,  prigionieri  come  prima  e  peggio  di
          prima...!”. “Fossimo scappati quando si poteva scappare…”.
          “Per essere freddati dai partigiani sulle montagne coperte di
          neve”.

          Rimanemmo nel campo diversi giorni. Ebbi modo di rincon-
          trare  compagni  d’arme  conosciuti  a  Lero,  e  sorpresa  bellis-
          sima, incontrai un amico d’infanzia, nato a San Marco d'Alun-
          zio  qualche  anno  prima  di  me;  Giuseppe  Latino,  soldato  di

          fanteria. Ci abbracciammo, ci baciammo, piangemmo di gioia,
          e ci promettemmo di non lasciarci piu’ e se ce lo permette-
          vano i nostri aguzzni, di tornare a casa assieme. E tornammo a
          casa assieme!Tra noi prigionieri italiani, correva la voce che
          al piu’ presto ci avrebbero messi su navi, attraversato l'Adri-
          atico e sbarcati nella bassa Italia, ormai liberata dalle truppe
          Tedesche e sotto gli  Alleati. Ma la famosa Radio Scarpone,

          non volle mai confermare, anzi ci diceva di non farci illusioni.

          “Ma  perche’  tenerci  in  campo  di  concentramento  se  siamo
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