Page 316 - АЛЬМАНАХ КУХНЯ НАРОДНАЯ ДИПЛОМАТИЯ 2020-2023
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benignamente e d’umiltà vestuta,
                  e par che sia una cosa venuta
                  da cielo in terra a miracol mostrare.
                  Dante Alighieri, Vita nova, XXVI

                  “Mancavano ancora diverse settimane alle nozze di suo figlio con la bella Ciuta e il vecchio
                  e grasso Bondone già si agitava molto, era tutto sudato, correva su e giù per le scale,
                  urlando e dando ordini ai garzoni e a sua moglie. Si dava un gran daffare per la
                  preparazione dei banchetti che nelle diverse cerimonie nuziali si sarebbero dovuti
                  organizzare un po’ alla volta con tutti i parenti e amici. Le procedure iniziali dell’unione
                  dei due giovani erano state affidate alla sapiente cura di un bravo notaio, un professionista
                  del me-stiere, Matteo di Luca Giani, che da tempo aveva già messo in contatto le due
                  famiglie ascoltando le parti e dividend equamente la dote. In un incontro ufficiale tra i
                  genitori dei futuri sposi si era poi raggiunto l’accordo matrimonia- le suggellato da una
                  stretta di mano: i due giovani erano stati dunque impalmati da Bondone e Lapo, che si
                  erano intrattenuti fino a notte tarda davanti a due e più bicchieri
                  di rosso.
                  Le due famiglie al gran completo si erano incontrate al cospetto del notaio, dove in forma
                  solenne Bondone e il padre della sposa avevano dato pubblicamente il loro assenso alle
                  nozze. Le “giure”, dunque, si erano tenute a dovuta distanza; l’inanellamento invece
                  sarebbe avvenuto qualche tempo dopo. Matteo di Luca Giani, notaro in Fiorenza e
                  testimone dell’assenso delle parti, aveva sancito l’evento con un atto formale che dava
                  finalmente piena ufficialità al loro
                  amore.
                  La cerimonia fu celebrata nella loro parrocchia di Santa Maria Novella. Gli sposi erano
                  vestiti di rosso scarlatto e Ciuta aveva i lunghi capelli neri sciolti ma coperti da un lungo
                  velo bianco che nascondeva anche lo sposo. Il prete spezzò un’unica ostia e la divise tra i
                  due sposi, che bevvero dallo stesso calice e poi, mano nella mano, accesero un cero alla
                  Santa Vergine. Alla fine della cerimonia, dopo essere usciti dalla chiesa accompagnati dal
                  prete, gli sposi, insieme ai parenti, entrarono nel cimitero accanto e andarono a pregare i
                  propri morti, o almeno quelli di Ciuta perché Giotto i suoi li aveva fuori città, al Mugello.
                  Sulla strada di ritorno verso casa parenti e amici tirarono grano agli sposi, con l’auspicio di
                  fertilità e di abbondanza. Ma di questo augurio non ce ne fu davvero bisogno.
                  Quando finalmente gli invitati arrivarono a casa, che era nel sestiere di San Pancrazio,
                  iniziò il sontuoso banchetto. I tempi furono più lunghi del previsto.
                  La festa cominciò tra canti, balli e ricche tavolate che durarono per ore e ore. Al calar del
                  sole della prima sera, il prete benedì la stanza da letto dove i due giovani sposi avrebbero
                  consumato la loro prima notte di nozze e poi ridiscese giù di corsa a far baldoria con gli
                  altri.
                  Il menu era ricco: quaglie arrosto, pernici e tortore, oche, cervo, pollo, lepre, cinghiale al
                  forno, pavone, cappone, anatra, tacchino, vitello, capra, montone, trote, formaggi, zucca
                  alla brace, noci, frutta fresca, pesce al vapore con latte di mandorla, pane aromatizzato alla
                  birra, stufato
                  di cavolo, crostate e crema pasticcera e vino aromatizzato. La carne fu rigorosamente
                  servita con ricche salse accompagnate da pane di ogni tipo e aroma. L’unica frutta
                  coltivata erano le mele anche se dintorno a Firenze crescevano altri tipi di frutta selvatica;
                  sui tavoli dei banchetti si potevano trovare anche fragole, lamponi e ribes, che venivano
                  raccol-
                  ti nei boschi dell’Amiata.
                  Per contorno non mancarono carote, spinaci, lattuga, porri, cardi, cipolle, asparagi, cavoli,
                  scalogni, lenticchie, fagioli, fagiolini, fave e funghi. La festa venne elaborata con un ritmo di
                  tre portate per volta e non senza l’ampio uso di spezie che includevano: chiodi di garofano,
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